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I dilemmi dell’agricoltura
 
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Non la consideriamo mai, in fondo l’agricoltura contribuisce in piccole percentuali alla produzione di ricchezza e meno ancora all’occupazione globale. Né, ci sembra, si manifestano segni di crisi: se abbiamo bisogno di cibo, scendiamo al supermercato dove troviamo offerte da ogni parte del mondo, a prescindere dalla stagione.
Sembra proprio che problemi non ce ne siano. Invece l’agricoltura si dibatte tra dilemmi di difficilissima soluzione, che ci toccano tutti e condizioneranno il futuro.
Primo dilemma: ci sarà abbastanza cibi per soddisfare la domanda crescente?
La domanda di cibo cresce spinta da due fattori, l’aumento della popolazione globale e i cambiamenti dei regimi alimentari.
Oggi abitano il nostro pianeta poco più di 7 miliardi di persone. Le stime medie delle Nazioni Unite ritengono che nel 2050, la popolazione mondiale sarà tra 9 e 10 miliardi.
Se consideriamo che già oggi circa un miliardo di persone soffre la fame ed è malnutrita, la somma totale delle nuove bocche da sfamare è tra 3 e 4 miliardi di persone.
Nel frattempo cambiano i regimi alimentari, perché con l’aumento delle disponibilità economiche le diete si spostano dai cereali alla carne, bovini, ovini, suini, pollame a seconda delle regioni del mondo.
Se consideriamo che, per esempio, per un chilogrammo di carne servono 7 chilogrammi di cereali, possiamo calcolare che lo stesso numero di persone avrà bisogno, passando da diete a base di cereali a diete carnee, di moltiplicare per sette la quantità di cereali prodotti.
Si stima oggi che per far fronte alla domanda mondiale la produzione di cibo dovrebbe all’incirca raddoppiare.
Come si fa a produrre più cibo? Nella storia si sono seguite due strade: aumentare le aree coltivate e migliorare le rese produttive.
Oggi le aree coltivate sono circa il 12% delle terre emerse non coperte da ghiacci, mentre un altro 26% è destinato al pascolo. Il totale è il 38% della superficie totale disponibile.
In realtà se consideriamo che della superficie coltivata (il 12%) solo il 62% è destinato a produrre direttamente cibo per l’uomo, mentre il 35% è destinato a cibo per animali ed il 3% a bioenergia, ne discende che in realtà il 75% delle terre lavorate dall’uomo è destinato agli animali. Questo dato è molto differente per aree geografiche: la quota destinata al nutrimento diretto dell’uomo è il 40% in Europa e Nord America, l’80% in Africa ed Asia.
Se però i paesi emergenti cambieranno, come già sta avvenendo, i loro regimi alimentari, è facile pensare che anche in Africa e soprattutto in Asia le percentuali si avvicineranno a quelle europee e nordamericane.
La pressione per estendere le aree addomesticate sarà dunque molto forte. Tuttavia il suolo è una risorsa finita e molto contesa. Oltre all’agricoltura se la contendono gli altri usi umani (urbanizzazione, infrastrutturazione) e le foreste e gli ambienti naturali non ancora asserviti.
Le foreste, che sembrano la parte sacrificabile per ottenerne aree coltivabili, sono però una risorsa preziosa e irrinunciabile, perché sono depositi di carbonio, e quindi contribuiscono a ridurre le concentrazioni di gas serra in atmosfera, sono straordinari depositi di biodiversità e forniscono servizi ecologici di cui non possiamo fare a meno, come materiali, regolazione del clima, depurazione delle acque e dell’aria, e così via.
Solo per dare un dato, già oggi la deforestazione incide sull’aumento delle emissioni per il 12%, ed andrebbe dunque rallentata e poi fermata.
Potremmo allora, come avvento nel corso del XX secolo con spettacolari risultati, puntare ad aumentare le rese produttive.
I dati più recenti ci dicono che le rese sono aumentate del 56% tra il 1965 ed il 1985, del 20% tra il 1985 ed il 2005, con un significativo rallentamento.
Alcune stime effettuate su singole coltivazioni, sostengono che ci si stia avvicinando ad un asintoto, cioè al massimo della resa possibile in natura.
Non dobbiamo inoltre ignorare i costi ambientali. L’aumento delle rese è stato ottenuto con l’impiego su larga scala di fertilizzanti contenenti fosforo e, soprattutto, azoto sintetizzati artificialmente. La produzione di fertilizzanti azotati è di per se stessa molto energivora e contribuisce dunque alle emissioni di gas serra, ma soprattutto altera profondamente il ciclo naturale dell’azoto, che, distribuito sui campi, da un lato minaccia gli acquiferi sotterranei, dall’altro si riversa in mare, portato dal sistema idrico superficiale, causando ampie “zone morte” per i fenomeni di eutrofizzazione indotti.
C’è un’altra risorsa critica da considerare: l’acqua. Oggi la parte maggiore dell’agricoltura è alimentata dalle piogge, una quota minore è irrigata artificialmente attingendo acqua dolce da fiumi e torrenti o da sorgenti sotterranee. La prima sorgente, la pioggia, è minacciata dalla crisi climatica, in particolare dalle siccità sempre più frequenti ed intense, la seconda da una crescente scarsità dovuta al fatto che anche la domanda d’acqua è crescente, sia per uso industriale che civile, mentre la risorsa dipende dal ciclo idrologico naturale che è finito e non modificabile.
In sintesi un grande dilemma, nutrire una popolazione in aumento e con esigenze crescenti rispettando obiettivi ecologici essenziali, nell’ordine:
1.    Ridurre la perdita di biodiversità
2.    Tagliare le emissioni climalteranti
3.    Ridurre l’inquinamento, soprattutto da azoto
4.    Contenere il consumo di acqua dolce.
Non c’è che dire, una sfida.
 
I dati sono tratti da: Foley et al. – Solutions for a cultivated planet - www.slideshare.net/ViralNetwork/nature-article
 
 
                                                                                  Fulvio Fagiani

 

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