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Negli ultimi anni si è affermato il settore del petrolio “non convenzionale” estratto con la tecnica della fratturazione idraulica, che ha avuto due effetti macroscopici: ha rivoluzionato lo scenario dei protagonisti, con la trasformazione di USA e Canada da importatori di combustibili fossili ad esportatori netti, ed ha inondato il mercato di petrolio e gas.
La preoccupazione di una crisi da carenza di offerta si è rovesciata nel suo contrario, uno squilibrio tra domanda in difficoltà ed offerta crescente.
Si è così scatenata la guerra tra i produttori. I paesi del medio Oriente, che dispongono di sorgenti dai bassi costi di estrazione (pochi dollari per barile), non hanno attuato il consueto contenimento della produzione per stabilizzare il prezzo ed hanno favorito la discesa dei prezzi fino a mettere in difficoltà i nuovi produttori di combustibili non tradizionali, shale oil e shale gas, che hanno invece costi di produzione di parecchie decina di dollari al barile.
Questo avviene nel mezzo di una crisi mondiale in cui la stagnazione in Europa ed il rallentamento della crescita della Cina hanno ridotto il ritmo di crescita della domanda.
I primi effetti sono la riduzione degli investimenti nella ricerca di nuovi giacimenti e le difficoltà finanziarie, in alcuni casi il fallimento, nella schiera dei nuovi produttori.
Ci domandiamo: abbiamo bisogno di tutto questo petrolio (e gas)?
Una risposta interessante la troviamo in uno studio pubblicato a gennaio 2015 sull’autorevolissima rivista scientifica Nature, a firma di McGlade ed Ekins.
I due autori analizzano le dimensioni e la localizzazione delle riserve di fossili alla luce dell’esigenza di contenere l’aumento globale di temperatura entro i 2 °C, obiettivo assunto dall’intera comunità internazionale e raccomandata dal mondo scientifico.
Come si sa il riscaldamento globale è causato principalmente dall’emissione in atmosfera dei gas serra (in primis l’anidride carbonica) dovuta all’uso dei combustibili fossili (carbone, petrolio e gas naturale). Per centrare l’obiettivo dei 2 °C abbiamo a disposizione un “budget di carbonio”, cioè un quantitativo massimo di emissioni che possiamo permetterci, di circa 1.000 GT di Carbonio.
Le risorse di fossili stimate in tutto il mondo ammontano a circa 2.900 GT di Carbonio.
Di conseguenza, se vogliamo garantire l’obiettivo di sicurezza dell’aumento di temperatura non superiore ai 2 °C, oltre la metà delle riserve devono rimanere nel sottosuolo, non devono essere bruciate.
Lo studio analizza la collocazione geografica delle riserve e ipotizza, basandosi esclusivamente sul criterio del minior costo, la distribuzione delle riserve da non bruciare (v. tabella in allegato) sotto due ipotesi: che in futuro si possa usare la cosiddetta tecnologia CCS (Carbon Capture e Storage) di cattura dell’anidride carbonica o meno.
Nel secondo caso, il più prudenziale, il 35% del petrolio, il 52% del gas e l’88% del carbone dovrebbero restare sotto terra. Lascio al lettore la lettura del dettaglio geografico e le considerazioni geopolitiche che se ne possono trarre.
In generale si ricava comunque che gli investimenti più recenti nelle tecniche di estrazione, dai mari profondi, dalle rocce scistose o dalle sabbie bituminose (shale oil e gas, tar sands gas), dall’Artico e l’estrazione del carbone con la tecnica dello scoperchiamento della cima delle montagne, ampiamente utilizzata negli Stati Uniti, essendo le più costose dovrebbero essere le prime ad essere annullate.
Sono tra l’altro le tecniche dai più alti costi ambientali: si pensi al disastro ambientale della piattaforma Deepwater Horizon del 2010, gli impatti paventati delle perforazioni nell’Artico, le molte proteste delle popolazioni locali contro le devastazioni ambientali dovute a molte di queste installazioni.
Anche la tecnica del fracking (la fratturazione idraulica) ha molte controindicazioni: l’inquinamento delle falde acquifere, le emissioni di metano durante la fase di produzione, i microterremoti che causa.
Vale la pena creare tanti danni ambientali per estrarre dei combustibili che, secondo logica, dovrebbero rimanere inutilizzati?
Un altro studio di pochi anni fa aveva fatto un passo in avanti: siccome le riserve stimate rientrano nella valutazione del patrimonio delle società di produzione, e quindi anche della loro valutazione di borsa, si era stimato che il valore delle riserve da non bruciare ammontasse a circa 20.000 miliardi di dollari. Forse abbiamo trovato una spiegazione.
 
 
MCGlade Ekins – Geographical distribution of fossil fuels unused when limiting global warming to 2 °C - www.nature.com/nature/journal/v517/n7533/full/nature14016.html
 
 
                                                                                  Fulvio Fagiani

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