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Scrivo queste note di ritorno dal 14° Forum di Agenda21Laghi intitolato “Come cambia il clima della Terra, come cambia la Terra con il clima”.
Rimando una cronaca esauriente alla sezione “documenti “ del sito www.agenda21laghi.it, che tra pochi giorni conterrà le presentazioni di Frank Raes e Stefano Caserini, mentre in questo testo vorrei ricavare lo spazio per alcune riflessioni che ne prendono spunto.
Il senso ultimo della conferenza può essere racchiuso in questa conclusione: il riscaldamento globale è una realtà, la prosecuzione delle tendenze attuali (il “business as usual”) porta ad un incremento della temperatura media globale di 4-6 °C rispetto a 100 anni fa, le conseguenze possono essere catastrofiche, tuttavia esistono le possibilità di fermare il cambiamento climatico entro limiti gestibili (entro i 2 °C).
L’urgenza dell’azione contrasta però con l’evidente inerzia, testimoniata dall’andamento, rallentato e spesso inconcludente, dei negoziati internazionali sul nuovo accordo per limitare le emissioni, come evidenziato dallo stallo dell’ultima conferenza internazionale di Varsavia (la COP19).
La comunità degli scienziati che nei diversi ambiti disciplinari si occupano di clima è unanime, non solo nel confermare la realtà del riscaldamento globale e nell’identificarne la causa prevalente nell’uso dei combustibili fossili, ma anche nel segnalare i rischi catastrofici ed irreversibili; gli appelli che si rinnovano da numerosissime associazioni e congressi scientifici non riescono però a catturare l’attenzione della politica, dell’economia, della società. Oggi sembrano impellenti altri problemi, che scacciano nell’oscurità altre minacce, meno evidenti, meno imminenti, ma ben più rovinose.
Per alcuni la risposta è, come per tante altre emergenze, responsabilità della politica, indifferente ai veri problemi, autoreferenziale, preoccupata solo dei suoi equilibri interni; si dimenticano che quella politica la votiamo tutti noi.
Non possiamo scaricarci della responsabilità, anche perché la soluzione della mitigazione del mutamento climatico è un intreccio ineludibile di azioni “dall’alto”, i negoziati internazionali e le politiche pubbliche, e “dal basso”, i comportamenti individuali e collettivi.
Insomma nessuno può dirsi innocente.
Perché dunque le preoccupazioni sul clima che cambia scivolano verso gli ultimi posti, malgrado gli evidenti segnali che ci vengono trasmessi dalle catastrofi ambientali, non ultima quella causata nelle Filippine dal tifone Haiyan?
Una possibile spiegazione l’ha fornita Caserini: perché è tipico della psicologia umana sfuggire le prospettive più spaventose, anche quando la loro evidenza è manifesta (a chi fosse interessato suggerisco la lettura di “Stati di negazione” di Stanley Cohen, Carocci editore).
Un’altra spiegazione è che il nostro modo di pensare ci porta a prestare attenzione solo ad eventi vicini nello spazio e nel tempo. Possiamo preoccuparci se vediamo il fiume sotto casa visibilmente inquinato e ne temiamo gli effetti a breve termine sulla nostra salute.
Il riscaldamento globale invece si dispiega su tutto il pianeta e nell’arco di alcuni decenni.
Agisce anche la controinformazione di chi trova ogni pretesto per negare l’esistenza dei mutamenti climatici e delle cause antropogeniche.
Le scienze sociali, che da alcuni anni hanno cominciano ad occuparsi della crisi ambientale (si veda l’articolo in questa newsletter), stanno producendo ipotesi di lettura ancora più ampie e profonde.
Anche chi è consapevole del problema appare sovente rassegnato al peggio, spaventato dalle gigantesche forze che la globalizzazione ha scatenato e che appaiono dominare le nostre esistenze.
Se ci sentiamo soli, impotenti, presi nella morsa del consumo e della pubblicità, schiacciati sul presente, il mondo ci apparirà immutabile e dedicheremo le nostre forze ad altro.
Questo è il panorama sociale che abbiamo di fronte ai nostri occhi.
Non è allora sorprendente che, come ci spiega l’ultimo rapporto del Censis, viviamo in uno “sconforto continuato”, in una “profonda crisi antropologica delle singole molecole sociali, divenute inerti elementi di moltitudine”.
 
 
                                                                                  Fulvio Fagiani

 

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