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In inglese si chiama short-termism anche se non lo si trova su nessun dizionario. E’ composto dalle parole short, breve, e term, termine, ed allude ad una modo di pensare ed agire unicamente ispirato al breve termine. Anche se in italiano non esiste un vocabolo corrispondente, siamo circondati dallo short-termism. Si parli della crisi finanziaria, della situazione recessiva, delle prospettive dell’Europa, per non parlare delle elezioni, l’attenzione è tutta focalizzata sul breve o brevissimo termine.
“Nel tempo lungo siamo tutti morti”, scrisse Keynes, e forse è proprio così.
Un numero della rivista dell’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti1, di dicembre 2009, è interamente dedicato a quelle componenti del nostro Pianeta che potrebbero essere particolarmente vulnerabili al riscaldamento globale, che potrebbero trapassare in uno stato irreversibile ed incontrollabile una volta superato una soglia critica.
La rivista dedica a ciascuno un articolo di approfondimento, qui mi limito ad elencarli: la maggior sorgente di polvere del Pianeta, la depressione Bodelé in Ciad, il monsone indiano, il cosiddetto El Niño, la circolazione delle correnti dell’Atlantico meridionale, i ghiacci del Mare Artico, della Groenlandia e dell’Antartide Occidentale, i depositi oceanici di idrati di metano, gli oceani in costante acidificazione, le foreste pluviali dell’Amazzonia.
Anche uno sguardo distratto rileva che si tratta di processi che determinano le condizioni di vita di miliardi di percone. Non solo, sono fenomeni di scala locale, cioè localizzati geograficamente, ma con conseguenze su scala globale. Si pensi, per fare un solo esempio, agli idrati di metano depositati sui fondali oceanici: un aumento delle temperature libererebbe bolle di metano che percorrerebbero la colonna d’acqua per liberarsi in atmosfera. Il metano è un potente gas serra, ben più dell’anidride carbonica., che rinforzerebbe il riscaldamento globale dando vita ad un ciclo di autoalimentazione incontrollabile.
L’elenco, peraltro, è anche parziale, non comprendendo, per limitarci solo ai fenomeni connessi con il riscaldamento globale, i gas serra imprigionati nel permafrost e la potenziale riduzione della capacità di cattura dell’anidride carbonica degli oceani.
Un’altra recente pubblicazione, il rapporto al Club di Roma, edito come libro con il titolo “Bankrupting nature”2, dedica un capitolo all’agricoltura incardinandolo su una delle domande essenziali che dovremmo porci: “come alimentare 9/10 miliardi di persone che abiteranno la Terra intorno al 2050?”.
La prospettiva 2050 va inquadrata nelle condizioni limitative:
  1. già oggi circa 2 miliardi di persone sono sottonutrite;
  2. non è possibile espandere le aree coltivate perché andrebbe a detrimento di foreste, aree umide, praterie indispensabili come contenitore di carbonio e per i servizi ecologici resi;
  3. l’attuale agricoltura industrializzata è dipendente dal petrolio per i mezzi meccanici e la produzione dei concimi artificiali, ha già toccato probabilmente il tetto delle rese e deve trasformarsi da emettitore a sequestratore di gas serra.
Muoversi entro questi limiti e incrementare del 70/80% la capacità produttiva per far fronte ai bisogni dei futuri abitanti del Pianeta sarà uno straordinario sforzo di inventiva ed applicazione.
Gli esempi tratti dalla rivista dell’accademia americana e dal rapporto al Club di Roma sono indubitabilmente processi che hanno le loro cause nei comportamenti di oggi e le loro conseguenze possibili tra qualche decina di anni, casi fuori dai limiti temporali dello short-termism.
Confrontatene la portata con quella delle questioni oggetto del quotidiano dibattito politico e sociale e riflettete se non meritano almeno lo stesso livello di attenzione e d’interesse.
Ma non prendiamoci troppo sul serio, sono solo chiacchiere da sala di musica del Titanic.
 
                                                                                  Fulvio Fagiani
 
 
2)     A.Wijkman e J.Rockström – Bankrupting nature – earthscan from Routledge

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