Il Referendum – Le ragioni del No


Schematizziamo le principali motivazioni per votare No e cerchiamo di metterle alla prova.

 

- Perderemmo migliaia di posti di lavoro! La principale motivazione per chi invita a votare No tocca il tema dell’occupazione, attribuendo all’eventuale mancata proroga delle concessioni la perdita di posti di lavoro.

 

 Il settore del gas e del petrolio è in netta crisi e ha già perso centinaia di posti di lavoro (900 in sei mesi secondo il Sole 24 Ore), a causa dei prezzi molto bassi, dello spostamento dei grandi fondi di investimento su aziende nel campo delle rinnovabili e della costante diminuzione dei consumi di fonti fossili. Si tratta di un declino avviato e strutturale, certo non dipendente dal referendum.

Ricordiamo poi che in caso di ritorno al limite temporale nelle concessioni, la chiusura delle estrazioni avverrebbe dilazionata nel tempo e secondo i piani aziendali con cui furono costruite, non si parla di chiudere una grande industria dall’oggi al domani.

Prolungare le concessioni probabilmente allungherebbe un poco l’occupazione per un certo numero di addetti, ma la richiesta di idrocarburi nei prossimi anni è destinata a scendere ulteriormente e i posti di lavoro a diminuire con essa.

Un’ultima nota sul tema occupazione: a parità di energia prodotta, i posti di lavoro necessari utilizzando le fonti fossili sono nettamente inferiori rispetto all’utilizzo delle fonti rinnovabili. Dunque nel sistema complessivo, passando da fonti fossili alle rinnovabili i posti di lavoro sono destinati ad aumentare.

La sfida è gestire la transizione nella maniera più facile e meno traumatica. Si tratta di valutare se la proroga delle estrazioni fa parte di questa strategia o meno.

 

- Se non lo estraiamo qui ci tocca andare a prenderlo altrove! Il tema della dipendenza energetica dell’Italia è ricorrente e sfiora argomenti ambientali “aumenterebbero le petroliere” ed economici “meglio il nostro petrolio a km0”.

 

La prima analisi che possiamo fare è sul consumo. Con il calo costante dei consumi già in atto e quello che nei prossimi anni dovremo attuare per far fronte agli impegni presi alla COP21, è semplice constatare che il termine delle estrazioni dalle piattaforme considerate dal referendum del 17 aprile non provocherà alcuna necessità di maggiori importazioni da altri paesi.

Aggiungiamo una seconda considerazione. Nel momento in cui un’azienda ha ottenuto una concessione di estrazione, il prodotto che estrarrà negli anni successivi sarà suo, non “nostro” e potrà deciderlo di venderlo a qualsiasi suo cliente, Italia inclusa, al prezzo che riuscirà a spuntare. Parlare dunque di prodotti nazionali dal punto di vista economico non ha molto senso. Certo vi sono i pagamenti per i diritti di estrazione, ma li trattiamo in un prossimo punto.

Rimanendo sul tema più generale della sovranità energetica nazionale è chiaro che non possiamo paragonarci a nazioni come la Norvegia, dove le estrazioni di prodotti fossili pesano moltissimo sulla bilancia del Paese. Se l’Italia vuole smettere di dipendere dall’estero per la propria energia dovrà puntare con decisione e sforzi sia pubblici che privati sulle rinnovabili di cui è ricca. Non può essere l’allungamento di poche concessioni di estrazione in giacimenti di modeste dimensioni a cambiare lo stato delle cose, al massimo potrà ritardare il cambiamento. Che un simile ritardo sia auspicabile o meno lo si può indicare tramite il referendum.

 

- Butteremmo via una ricchezza e le aziende perderanno investimenti! Un’ulteriore argomentazione economica utilizzata da chi propone di votare No. A questa si accoda spesso anche la visione per cui “Tanto lo faranno comunque i croati!”.

 

Ripetiamo che il referendum riguarda piattaforme esistenti entro le 12 miglia dalla costa, limite entro il quale non è possibile aprire nuove piattaforme. Quindi eliminiamo subito dal gioco i croati.

Valutiamo la ricchezza in gioco, per poter decidere se ne vale la pena. I diritti, le royalty di cui abbiamo accennato, che le aziende versano allo Stato per poter estrarre, sono il 7% del valore del petrolio e il 10% del valore del gas estratti dalle piattaforme in mare, tutto il resto rimane in tasca all’azienda (multinazionali italiane ed estere). Va inoltre considerato che le prime 50.000 tonnellate di petrolio e i primi 80 milioni di metri cubi di gas estratti ogni anno sono esenti da diritti quindi completamente gratis per l’azienda. In totale nell’ultimo anno lo Stato ha incassato 340 milioni di euro. Forse non quell’enorme ricchezza che ci si potrebbe immaginare.

Mettiamoci infine sul lato aziendale. Nel momento in cui le aziende realizzarono le diverse piattaforme lo fecero considerando le regole in vigore allora, dunque tarando il proprio investimento sulla durata massima dei permessi di estrazione. Il referendum non chiuderebbe prima di quel momento le piattaforme quindi il ritorno dell’investimento per le aziende non sarebbe minimamente modificato da quanto da loro stesse previsto.

Al contrario, se la concessione rimanesse senza termine prefissato, le aziende ne trarrebbero un forte beneficio aggiuntivo. E’ naturale che vogliano proseguire le attività il più possibile, per due semplici motivi. I costi di investimento, come abbiamo visto, sono già tutti rientrati quindi ogni goccia di petrolio o sbuffo di gas è un’aggiunta. Un’aggiunta spesso gratuita considerando che le aziende hanno tutta la convenienza nell’estrarre quantità vicine alla soglia di franchigia per pagare meno royalty possibili, allungando la vita della piattaforma. Ma la convenienza c’è anche nel tenere semplicemente ferma la piattaforma, senza estrarre nulla, perché senza un termine temporale e con il giacimento ancora minimamente utile, non ci sono obblighi di iniziare il costoso smantellamento della piattaforma. Possiamo immaginare i rischi ambientali che comporterebbe il mantenimento con minima manutenzione di una piattaforma per molti più anni di quanti inizialmente ipotizzati durante la sua costruzione.

Quindi per le aziende coinvolte è chiaro il vantaggio nel votare No al referendum. Ognuno stabilisca se il vantaggio per queste aziende sia anche un valore aggiunto per tutti.

 

 

 

                                                                                  Luca Colombo