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L’accordo di Parigi
 
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La COP21 si è infine chiusa con un accordo salutato dai più come un fatto storico, anche se molti ne sottolineano le insufficienze ed i limiti.

Il vero significato di questo testo può essere compreso meglio se ritorniamo con la mente alla storia recente delle Conferenze sul clima.

A Kyoto, nel 1997, fu approvato il noto protocollo: vi aderivano 35 Paesi ricchi, alcuni dei quali, gli USA ed il Canada tra gli altri, se ne sono poi ritirati. L’accordo è entrato in vigore solo nel 2005 con l’adesione della Russia ed aveva comunque obiettivi molto limitati.

A Copenhagen, nel 2009, la Conferenza si rivelò un fiasco completo con USA e Cina a contendersi il ruolo del Paese sabotatore.

A Parigi l’accordo viene approvato da 195 Paesi che rappresentano oltre il 95% delle emissioni di gas serra, non solo i Paesi sviluppati, ma anche i Paesi cosiddetti in via di sviluppo. Questo è il primo grande passaggio. I Paesi terzi, guidati dalla Cina, avevano assunto un atteggiamento attendista: i cambiamenti climatici sono una responsabilità dei Paesi ricchi, a loro le mosse per scongiurare eventi catastrofici.

Parigi ha segnato un’inversione di rotta, perché tutti i paesi si sentono responsabili di fronte alla ricerca di una soluzione, sono partecipi dell’architettura tecnica e giuridica dell’accordo.

Senza che si dimentichi il principio fondante della Convenzione sul Clima, la “responsabilità comune, ma differenziata”.

In questo clima mutato, si sono raggiunti esiti non facilmente prevedibili.

Si è concordato che l’obiettivo a lungo termine sia il contenimento del riscaldamento globale ben sotto i 2°C, facendo ogni sforzo per fermarsi a +1,5°C rispetto alle temperature dell’inizio della rivoluzione industriale. Questo obiettivo, è scritto nel documento conclusivo, è ottenibile se le emissioni saranno azzerate nella seconda metà del secolo.

Si poteva desiderare un obiettivo più preciso ed impegnativo, ma già così è tracciata una prospettiva di lungo periodo che è sempre mancata prima.

Ogni Nazione partecipante aveva indicato i propri impegni a ridurre le emissioni, i cosiddetti INDC. La somma degli impegni nazionali porta ad un limite aggregato delle emissioni ben oltre l’obiettivo di 1,5°C, ma anche oltre i 2 °C (alcuni stimano 2,7 °C altri 3,5 °C).

Il documento lo riconosce e disegna il modello di lavoro per ridurre il divario tra gli impegni attuali e ciò che si dovrebbe fare, invitando i paesi ad impegni futuri più ambiziosi e che dovranno essere verificati ogni cinque anni.

Vengono in proposito definiti passaggi intermedi e responsabilità di coordinamento e di definizione di linee guida.

Un argomento rovente era il contributo che i Paesi ricchi possono dare ai più poveri in termini di sostegno finanziario, trasferimento di tecnologia e di capacità operative. E’ stato riconfermato il fondo di 100 miliardi di dollari all’anno, a partire dal 2020, come bacino a cui attingere per sostenere queste azioni.

In sintesi, l’accordo di Parigi è un primo passo che delinea una cornice internazionale, ampiamente condivisa, da cui muovere per i passi successivi, convinti tutti che la gran parte del lavoro è ancora da fare.

Chi fino ad oggi si è impegnato per invertire la china rovinosa degli anni passati ha ora il compito di organizzarsi perché la prospettiva delineata diventi realtà.

Si spera che l’attenzione che la conferenza di Parigi ha calamitato giovi anche ai molti che sono stati finora alla finestra, e che hanno ritenuto i cambiamenti climatici poco meritevoli di attenzione ed impegno.

Spero che ci si sia resi conto che in realtà essi riguardano tutti noi e soprattutto i nostri figli ed i nostri nipoti.

Parigi dimostra che la sfida è difficile, ma può essere vinta. Dipende da noi.

 

 

                                                                      Fulvio Fagiani

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